Ti è già stato presentato Claudio Monteverdi, la cui musica è a cavallo tra il tardo Rinascimento e il primo Barocco. Ora esploriamo una delle sue composizioni più significative, L’Orfeo, la prima opera considerata un capolavoro.

Introduzione

L’Orfeo (SV 318), talvolta chiamato La favola d’Orfeo, è una favola in musica, o opera (talvolta considerata tardo rinascimentale) del primo barocco, di Claudio Monteverdi, con un libretto di Alessandro Striggio. Si basa sulla leggenda greca di Orfeo, e racconta la storia della sua discesa nell’Ade e del suo infruttuoso tentativo di riportare la sua sposa morta Euridice nel mondo dei vivi. Fu scritta nel 1607 per una rappresentazione di corte durante l’annuale Carnevale di Mantova. Mentre l’onore della prima opera in assoluto va a Dafne di Jacopo Peri, e la prima opera sopravvissuta è Euridice (sempre di Peri), L’Orfeo ha l’onore di essere la prima opera sopravvissuta che viene eseguita regolarmente ancora oggi.

Durante l’inizio del XVII secolo, il tradizionale intermedio – una sequenza musicale tra gli atti di un’opera teatrale – si stava evolvendo nella forma di un dramma musicale completo o “opera”. L’Orfeo di Monteverdi fece uscire questo processo dalla sua era sperimentale e fornì il primo esempio pienamente sviluppato del nuovo genere. Dopo la sua prima rappresentazione, l’opera fu messa in scena di nuovo a Mantova, e forse in altri centri italiani negli anni successivi. La sua partitura fu pubblicata da Monteverdi nel 1609 e di nuovo nel 1615. Dopo la morte del compositore nel 1643, l’opera rimase ineseguita per molti anni e fu in gran parte dimenticata fino a quando una rinascita di interesse alla fine del XIX secolo portò a una serie di edizioni e rappresentazioni moderne. All’inizio queste tendevano ad essere versioni non messe in scena all’interno di istituti e società musicali, ma dopo la prima esecuzione moderna drammatizzata a Parigi, nel 1911, l’opera cominciò ad essere vista sempre più spesso nei teatri. Dopo la seconda guerra mondiale la maggior parte delle nuove edizioni cercarono l’autenticità attraverso l’uso di strumenti d’epoca. Sono state pubblicate molte registrazioni e l’opera è stata sempre più messa in scena nei teatri d’opera. Nel 2007 il quatercentenario della prima è stato celebrato con rappresentazioni in tutto il mondo.

Nella sua partitura pubblicata Monteverdi elenca circa 41 strumenti da utilizzare, con gruppi distinti di strumenti usati per rappresentare scene e personaggi particolari. Così archi, clavicembali e flauti dolci rappresentano i campi pastorali della Tracia con le loro ninfe e pastori, mentre gli ottoni pesanti illustrano il mondo sotterraneo e i suoi abitanti. Composto nel punto di transizione dall’epoca rinascimentale a quella barocca, L’Orfeo impiega tutte le risorse allora conosciute nell’arte della musica, con un uso particolarmente audace della polifonia. L’opera non è orchestrata in quanto tale; nella tradizione rinascimentale gli strumentisti seguivano le istruzioni generali del compositore ma avevano una notevole libertà di improvvisazione. Questo separa il lavoro di Monteverdi dal successivo canone operistico e rende ogni esecuzione de L’Orfeo un’occasione unica ed individuale.

Sfondo storico

Claudio Monteverdi, nato a Cremona nel 1567, fu un prodigio musicale che studiò sotto Marc’Antonio Ingegneri, il maestro di cappella (capo della musica) della cattedrale di Cremona. Dopo essersi formato nel canto, negli archi e nella composizione, Monteverdi lavorò come musicista a Verona e Milano fino a quando, nel 1590 o 1591, si assicurò un posto di assuonatore di vivuola alla corte del duca Vincenzo Gonzaga a Mantova. Grazie all’abilità e al duro lavoro Monteverdi salì fino a diventare maestro della musica di Gonzaga nel 1601.

Figura 1. Il duca Vincenzo Gonzaga, datore di lavoro di Monteverdi a Mantova

La particolare passione di Vincenzo Gonzaga per il teatro musicale e lo spettacolo nacque dalle sue connessioni familiari con la corte di Firenze. Verso la fine del XVI secolo, gli innovativi musicisti fiorentini stavano sviluppando l’intermedio – una forma di interludio musicale da lungo tempo inserita tra gli atti dei drammi parlati – in forme sempre più elaborate. Guidati da Jacopo Corsi, questi successori della rinomata Camerata furono responsabili della prima opera generalmente riconosciuta come appartenente al genere dell’opera: Dafne, composta da Corsi e Jacopo Peri e rappresentata a Firenze nel 1598. Quest’opera combinava elementi di canto madrigalistico e monodia con danze e passaggi strumentali per formare un insieme drammatico. Solo frammenti della sua musica esistono ancora, ma molte altre opere fiorentine dello stesso periodo – la Rappresentazione di Anima, et di Corpo di Emilio de’ Cavalieri, l’Euridice di Peri e l’Euridice di Giulio Caccini dal titolo identico – sopravvivono complete. Questi ultimi due lavori furono le prime di molte rappresentazioni musicali del mito di Orfeo raccontato nelle Metamorfosi di Ovidio, e come tali furono diretti precursori de L’Orfeo di Monteverdi.

La corte dei Gonzaga aveva una lunga storia di promozione dell’intrattenimento drammatico. Un secolo prima dell’epoca del Duca Vincenzo, la corte aveva messo in scena il dramma lirico di Angelo Poliziano La favola di Orfeo, di cui almeno la metà era cantata piuttosto che parlata. Più recentemente, nel 1598 Monteverdi aveva aiutato l’establishment musicale di corte a produrre il dramma Il pastor fido di Giovanni Battista Guarini, descritto dallo storico del teatro Mark Ringer come un “lavoro teatrale spartiacque” che ispirò la mania italiana per il dramma pastorale. Il 6 ottobre 1600, mentre era in visita a Firenze per il matrimonio di Maria de’ Medici con il re Enrico IV di Francia, il duca Vincenzo assistette a una produzione dell’Euridice di Peri. È probabile che anche i suoi principali musicisti, incluso Monteverdi, fossero presenti a questa rappresentazione. Il Duca riconobbe subito la novità di questa nuova forma di intrattenimento drammatico e il suo potenziale di portare prestigio a coloro che erano disposti a sponsorizzarla.

Composizione

Quando Monteverdi scrisse la musica per L’Orfeo aveva una profonda preparazione nella musica teatrale. Era stato impiegato alla corte dei Gonzaga per 16 anni, la maggior parte dei quali come esecutore o arrangiatore di musica di scena, e nel 1604 aveva scritto il ballo Gli amori di Diane ed Endimone per il Carnevale di Mantova del 1604-05. Gli elementi con cui Monteverdi costruì la sua prima partitura d’opera – l’aria, la canzone strofica, il recitativo, i cori, le danze, gli intermezzi musicali drammatici – non furono, come ha sottolineato il direttore d’orchestra Nikolaus Harnoncourt, creati da lui, ma “egli mescolò l’intero stock di possibilità più nuove e più antiche in un’unità che era davvero nuova”. Il musicologo Robert Donington scrive in modo simile: “non contiene alcun elemento che non fosse basato su precedenti, ma raggiunge la completa maturità in quella forma recentemente sviluppata. . . . Qui ci sono parole espresse direttamente in musica come si voleva che fossero espresse; qui c’è la musica che le esprime… con la piena ispirazione del genio.”

Monteverdi dichiara i requisiti orchestrali all’inizio della sua partitura pubblicata, ma in accordo con la pratica del giorno non specifica il loro esatto utilizzo. A quel tempo era consuetudine lasciare ad ogni interprete dell’opera la libertà di prendere decisioni locali, basate sulle forze orchestrali a sua disposizione. Queste potevano differire nettamente da un luogo all’altro. Inoltre, come sottolinea Harnoncourt, gli strumentisti sarebbero stati tutti compositori e si sarebbero aspettati di collaborare creativamente ad ogni esecuzione, piuttosto che suonare un testo fisso. Un’altra pratica dell’epoca era quella di permettere ai cantanti di abbellire le loro arie. Monteverdi scrisse versioni semplici e abbellite di alcune arie, come il “Possente spirito” di Orfeo, ma secondo Harnoncourt “è ovvio che quando non scrisse alcun abbellimento non volle che fosse cantato.”

Ogni atto dell’opera tratta un singolo elemento della storia, e ognuno finisce con un coro. Nonostante la struttura in cinque atti, con due serie di cambi di scena, è probabile che L’Orfeo si sia conformato alla pratica standard per gli spettacoli di corte di quel tempo e sia stato eseguito come un’entità continua, senza intervalli o discese di sipario tra gli atti. Era consuetudine contemporanea che i cambiamenti di scena avvenissero in vista del pubblico, e che questi cambiamenti si riflettessero musicalmente con cambiamenti di strumentazione, chiave e stile.

Sinossi

L’azione si svolge in due luoghi contrastanti: i campi della Tracia (Atti 1, 2 e 5) e gli Inferi (Atti 3 e 4). Una toccata strumentale precede l’entrata di La musica, che rappresenta lo “spirito della musica”, che canta un prologo di cinque strofe di versi. Dopo un grazioso benvenuto al pubblico, annuncia che può, attraverso dolci suoni, “calmare ogni cuore turbato”. Canta un ulteriore inno al potere della musica, prima di introdurre il protagonista principale del dramma, Orfeo, che “teneva incantate le bestie selvagge con il suo canto.”

Atto 1

Dopo la richiesta finale di silenzio di La musica, il sipario si alza sul primo atto e rivela una scena pastorale. Orfeo ed Euridice entrano insieme a un coro di ninfe e pastori, che agiscono alla maniera di un coro greco, commentando l’azione sia come gruppo che come individui. Un pastore annuncia che questo è il giorno delle nozze della coppia; il coro risponde, prima in una maestosa invocazione (“Vieni, Imene, vieni”) e poi in una danza gioiosa (“Lascia le montagne, lascia le fontane”). Orfeo ed Euridice cantano il loro amore reciproco prima di partire con la maggior parte del gruppo per la cerimonia nuziale nel tempio. Quelli rimasti in scena cantano un breve coro, commentando come Orfeo fosse uno “per cui i sospiri erano cibo e il pianto era bevanda” prima che l’amore lo portasse ad uno stato di sublime felicità.

Atto 2

Orfeo ritorna con il coro principale, e canta con loro le bellezze della natura. Orfeo poi riflette sulla sua precedente infelicità, ma proclama: “Dopo il dolore si è più contenti, dopo il dolore si è più felici”. L’atmosfera di contentezza viene bruscamente interrotta quando entra La messaggera, portando la notizia che, mentre raccoglieva fiori, Euridice ha ricevuto un mortale morso di serpente. Il coro esprime la sua angoscia: “Ah, amaro avvenimento, ah, empio e crudele destino!”, mentre la Messaggera si rimprovera come portatrice di cattive notizie (“Per sempre fuggirò, e in una caverna solitaria condurrò una vita conforme al mio dolore”). Orfeo, dopo aver sfogato il suo dolore e la sua incredulità (“Tu sei morta, vita mia, e io respiro?”), dichiara la sua intenzione di scendere negli Inferi e convincere il suo sovrano a permettere a Euridice di tornare in vita. Altrimenti, dice, “resterò con te in compagnia della morte”. Parte, e il coro riprende il suo lamento.

Atto 3

Orfeo è guidato da Speranza alle porte dell’Ade. Dopo avergli indicato le parole iscritte sulla porta (“Abbandonate la speranza, voi tutti che entrate qui”), Speranza se ne va. Orfeo si trova ora di fronte al traghettatore Caronte, che si rivolge a Orfeo con durezza e si rifiuta di portarlo al di là del fiume Stige. Orfeo tenta di persuadere Caronte cantandogli una canzone lusinghiera (“Potente spirito e potente divinità”), ma il traghettatore è indifferente. Tuttavia, quando Orfeo prende la sua lira e suona, Caronte si addormenta. Cogliendo la sua occasione, Orfeo ruba la barca del traghettatore e attraversa il fiume, entrando negli Inferi mentre un coro di spiriti riflette che la natura non può difendersi dall’uomo: “

Atto 4

Negli Inferi, Proserpina, regina dell’Ade, profondamente colpita dal canto di Orfeo, chiede al re Plutone, suo marito, la liberazione di Euridice. Commosso dalle sue suppliche, Plutone acconsente a condizione che, mentre conduce Euridice verso il mondo, Orfeo non deve voltarsi indietro. Se lo farà, “un solo sguardo lo condannerà all’eterna perdita”. Orfeo entra, conduce Euridice e canta fiducioso che quel giorno riposerà sul bianco seno di sua moglie. Ma mentre canta si insinua una nota di dubbio: “Chi mi assicura che lei mi segua?”. Forse Plutone, spinto dall’invidia, ha imposto la condizione per dispetto? Improvvisamente distratto da un frastuono fuori scena, Orfeo si guarda intorno; subito l’immagine di Euridice comincia a svanire. Ella canta, disperata: “Mi perdi per troppo amore?” e scompare. Orfeo tenta di seguirla, ma è trascinato da una forza invisibile. Il coro degli spiriti canta che Orfeo, dopo aver vinto Ade, è stato a sua volta vinto dalle sue passioni.

Atto 5

Di nuovo nei campi della Tracia, Orfeo ha un lungo soliloquio in cui lamenta la sua perdita, loda la bellezza di Euridice e decide che il suo cuore non sarà più trafitto dalla freccia di Cupido. Un’eco fuori scena ripete le sue frasi finali. Improvvisamente, in una nuvola, Apollo scende dal cielo e lo castiga: “Perché ti dai in preda all’ira e al dolore?” Invita Orfeo a lasciare il mondo e a raggiungerlo nei cieli, dove riconoscerà nelle stelle le sembianze di Euridice. Orfeo risponde che sarebbe indegno non seguire il consiglio di un padre così saggio, e insieme salgono. Un coro di pastori conclude che “chi semina nella sofferenza raccoglierà il frutto di ogni grazia”, prima che l’opera termini con una vigorosa moresca.

Fine del libretto originale

Nel libretto di Striggio del 1607, il soliloquio del quinto atto di Orfeo è interrotto non dall’apparizione di Apollo ma da un coro di menadi o baccanti – donne selvagge e ubriache – che cantano la “furia divina” del loro padrone, il dio Bacco. La causa della loro ira è Orfeo e la sua rinuncia alle donne; egli non sfuggirà alla loro ira celeste, e più a lungo si sottrarrà a loro, più grave sarà il suo destino. Orfeo lascia la scena e il suo destino è lasciato incerto, perché i Baccanti si dedicano per il resto dell’opera a canti e danze sfrenate in lode di Bacco. L’autorità della musica antica Claude Palisca ritiene che i due finali non siano incompatibili; Orfeo sfugge alla furia delle Baccanti e viene poi salvato da Apollo.

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