In una delle sequenze più belle del romanzo di Elena Ferrante “La mia amica geniale”, due ragazze leggono “Piccole donne”. Ma Elena e Lila non si limitano a leggere il libro insieme. Lo recitano, lo memorizzano. Fantasticano di emulare Jo March, che è sfuggita alla povertà scrivendo. Lo distruggono con il loro amore: “L’abbiamo letto per mesi, così tante volte che il libro è diventato a brandelli e macchiato di sudore, ha perso la spina dorsale, si è slegato, le sezioni sono cadute a pezzi”
Questa sequenza è una delizia anche nell’adattamento televisivo, che sta andando in onda su HBO. Su una panchina nel loro quartiere violento e sporco di Napoli, Elena e Lila si rilassano, con i corpi intrecciati, indossando abiti trasandati, leggendo all’unisono, in italiano. (Eccitata, Lila recita un passaggio in cui Jo stessa legge ad alta voce, dal suo primo racconto pubblicato, alle sue sorelle, senza dire loro chi lo ha scritto. Al culmine del brano, quando Jo si rivela l’autrice, le due ragazze leggono insieme le parole di Jo, i loro volti brillano, mentre Lila si batte il petto: “Vostra sorella! “È un momento emozionante, che mi ha riportato alla selvaggia vulnerabilità della lettura infantile. La scena è drammatica, o forse solo specifica e sensuale, in un modo che la versione sulla pagina non può essere, e davvero non cerca di essere. Non c’è dialogo nel libro, non c’è il petto che si gonfia, nessuna descrizione dei vestiti delle ragazze, e nessuna citazione di “Piccole donne”. Il libro della Ferrante confida più di quanto descriva – questa è sia la sua tecnica che il suo potere insinuante.
Alcuni anni fa, ogni discussione sulla televisione sembrava essere inquadrata come “La TV è il nuovo romanzo?” Era una rivalità velenosa per entrambe le parti, non diversa da quella tra Lila ed Elena, le prime della classe. Non che io non lo capisca: negli ultimi due decenni, i progressi tecnologici hanno alterato la televisione in un modo simile a come il romanzo moderno – che ha iniziato come un mezzo episodico, serializzato, usa e getta, deriso per le sue qualità di dipendenza – è emerso come un fenomeno artistico rispettato. Con intere stagioni rilasciate in una volta sola, una serie televisiva è ora un testo da analizzare. C’è un corso di scrittura televisiva all’Università dell’Iowa. L’ansia è palpabile, da entrambe le parti. Di che tipo di arte parlano le persone intelligenti? Di cosa si abbuffano a notte fonda? Quale forma d’arte è capace di maggiore originalità, maggiore profondità, maggiore influenza – e quale ti rende ricco? (Jo sarebbe una showrunner?) È abbastanza per farti desiderare una conversazione più ampia, con il rispetto per i punti di forza di ogni arte, un’interazione che è più di una semplice gerarchia.
Il fatto è che, per quanto bella sia la scena nello spettacolo, non cattura mai (e, in particolare, non cerca di catturare) l’inquietante qualità meta della fonte, la sua testualità autocosciente – il fluido, solleticante bookishness di Ferrante, quel senso di una voce nel nostro orecchio. Nel libro, siamo consapevoli in ogni momento che stiamo leggendo un romanzo scritto da Elena – e sappiamo anche che, fuori da questa cornice, stiamo leggendo un libro dello pseudonimo Elena Ferrante, un’autrice che, come Jo, nasconde la sua identità. Questa traballante cornice di paternità, e l’assillante ansia su chi deve raccontare la storia, è ciò che guida la serie di quattro volumi della Ferrante, conosciuta come i romanzi napoletani (“La mia amica brillante” è il primo), su due ragazze della classe operaia, una delle quali trasforma l’altra in un libro. Non c’è da meravigliarsi che negli Stati Uniti sia emerso un seguito di culto, guidato da donne libraie, Jo-ish, Elena-like, adoratrici dell’autore, dando ai libri una reputazione che a volte li ha ridotti a un primer universalizzante sull’amicizia femminile. Questo stato d’animo è stato intensificato dalla mistica della Ferrante stessa a livello di Banksy.
Nel libro “La mia amica brillante”, Elena, la cocca dell’insegnante, vede l’eccezionale Lila non solo come sua concorrente ma anche come suo modello, suo specchio e, infine, suo soggetto. Dal punto di vista di Elena, la sua “bontà”, la repressione passivo-aggressiva della routine dei voti, prende vita solo quando viene messa accanto al genio creativo infuocato, ferale, a volte malevolo di Lila. Nell’adolescenza, le due si separano: Elena rimane a scuola, Lila si ritira. “My Brilliant Friend” è una storia su molte cose – la politica di sinistra, la violenza maschile, le scarpe eleganti, la forza di deformazione del patriarcato sulla creatività femminile – ma è fondamentalmente sul salto di classe, attraverso l’educazione, quella che rende consapevoli delle origini della classe sociale, compresi i modi in cui è incorporata nell’arte.